Un tardo pomeriggio di aprile di millenovecentocinquantadue anni orsono, in un punto della Pianura Padana dove, secoli dopo, Guareschi avrebbe ambientato le avventure di don Camillo e Peppone.
Nel campo, gremito di soldati, c’è attesa e fermento: un uomo, con indosso l’armatura e un mantello purpureo, scruta nervoso l’orizzonte. Tutto intorno campagne a perdita d’occhio che sfumano nella sera: la gucciniana via Aemilia non è ancora diventata un angusto fiume d’asfalto costeggiato da un’ininterrotta sequela di case e capannoni in disuso. Il nostro protagonista – ammettiamolo – non ha l’aspetto del condottiero: è basso di statura e ha le gambe arcuate, per nascondere la calvizie (suo cruccio) porta una parrucca. Il volto, pallido e sbarbato con cura, rivela che è ancora lontano dai quarant’anni.
Si chiama Marco Salvio Otone, ed è imperatore da poco più di tre mesi. La sua storia personale non lascia presagire gli sviluppi delle ore successive: coetaneo di Nerone è stato suo compagno di bagordi – un tipo frivolo ed effeminato, così lo giudicavano all’epoca. Con l’ultimo dei Giulio-Claudii ha rotto a causa di una donna di nome Poppea Sabina.
Il princeps aveva ordinato all’amico e sodale di strapparla al precedente marito e portargliela, ma Otone – svolta con solerzia la prima parte del compito – se ne era invaghito e l’aveva addirittura presa in moglie. Segue una comica, con il fulvo e bramoso imperatore costretto a fare anticamera, anzi sbattuto letteralmente fuori dalla porta della domus othoniana – alla fine, però, ubi maior minor cessat, e Marco Salvio viene spedito a espiare l’alzata di ingegno in Lusitania. Ripensando alla pochade l’ironico Nerone deve essersi fatto quattro risate, visto che la punizione inflitta all’ex amico consiste nella nomina a legato pro quaestore della marginale provincia iberica.
I lusitani non si fanno illusioni sulle qualità morali e le doti amministrative di un discusso damerino di venticinque anni, che però li sorprende in positivo: governerà saggiamente, mostrando un’onestà rara per i tempi. Nelle botti piccole sta il vino buono, ammonisce il proverbio, e Marco Salvio ottiene un’inattesa popolarità, sa farsi amare. Non sogna di sicuro l’impero – la sua famiglia, di origine etrusca, non fa parte della nobiltà romana – ma quando scoppia la rivolta contro l’imperatore-poeta vi partecipa, avendo poco da perdere e parecchio da guadagnare.
L’usurpatore Galba, descritto da Svetonio come un depravato, è molto avanti con gli anni e non ha eredi: Otone si pone al suo servizio e concepisce un sogno ambizioso. Si aspetta di essere adottato, ma l’anziano comandante gli preferisce un certo Pisone, spocchioso rampollo del patriziato dell’Urbe. I pretoriani, verosimilmente subornati (e allettati con denaro sonante), non approvano la scelta e trucidano principe ed erede designato nel bel mezzo del foro.
Per un capriccio del caso, che lui ha favorito, Otone si ritrova imperatore. Benché venga dal “basso” non perde la misura: interprete del sentimento popolare, fa rialzare le statue abbattute di Nerone e stanzia i fondi necessari al completamento della Domus aurea. Suo scopo è riportare la concordia nell’Urbe, ma dalla Germania arrivano notizie allarmanti: il governatore Aulo Vitellio si è sollevato e reclama il trono. Che fare? Otone aborre la sola idea di una guerra civile, e propone al rivale un’inedita diarchia. Vitellio rifiuta: ha forze preponderanti e si appresta a invadere l’Italia.
Tutto questo in quella serata di metà aprile appartiene al passato. Nessuno ci dice se il tempo fosse bello o brutto, se facesse caldo oppure freddo, ma a un certo punto un soldato si presenta all’accampamento. E’ trafelato e in preda allo sconforto. Reca notizia di una pesante sconfitta: a Bedriaco, presso Cremona, le truppe di Vitellio hanno prevalso. Otone abbassa il capo con virile rassegnazione. Plutarco è prodigo di particolari, ma la nostra fonte più attendibile è una volta tanto Svetonio – un pettegolo forse, ma anche il figlio di un testimone oculare: suo padre, Svetonio Leto, militò come tribuno angusticlavio (una specie di maggiore) in una delle legioni al seguito di Otone, e gli rimase accanto fino alla fine. Il figlio stavolta non scartabella documenti d’archivio: riporta le parole del genitore, nelle quali si avverte l’eco di un’immensa ammirazione per quel principe improvvisato dalle gambe storte.
Il legionario che ha annunciato la disfatta viene accusato di viltà dai commilitoni: per dimostrare la sua buona fede e la devozione al princeps si getta sul gladio. Otone è profondamente commosso da quel gesto disperato – e sebbene disponga ancora di riserve sufficienti a resistere decide di non mettere a repentaglio la vita dei suoi seguaci, e si congeda da loro. Vuole seguire l’esempio del milite, ma l’armata si ribella: deve restare al suo posto, continuare a combattere per difendere Roma da quel farabutto sceso dal settentrione.
L’ometto basso e depilato è un perdente, ma i suoi soldati non lo abbandonano, al contrario: lo incitano ad andare avanti, a guidarli ancora. Hanno fiducia in lui, gli vogliono bene. Non è una scena consueta: simili attestazioni di stima le ricevettero Cesare e Germanico, ma si trattava di condottieri eccezionali. Per Marco Salvio Otone le legioni sono disposte a morire – ma lui non tollera questo sacrificio, che reputa inutile. Nel momento supremo antepone l’interesse generale al proprio: pronuncia parole di conforto per i suoi e si ritira nella tenda. Svetonio getta una luce sui pensieri che intorbidarono quell’ultima notte: il parvenu Otone è dinanzi a noi, con le sue paure e la sua imprevedibile nobiltà d’animo.
Mentre ancora a Roma il popolo piange Nerone, lui – che, dopo averlo tradito, ne ha ravvivato la memoria – si rende conto di essere ormai superfluo, che anzi la sua sopravvivenza potrebbe arrecare ulteriori lutti alla popolazione e agli stessi sostenitori. Non capita spesso che un potente, sia pure a un passo dalla caduta, pensi al bene delle masse senza nome.
Marco Salvio Otone si sacrifica senz’altra necessità che quella dettatagli dalla coscienza: “Svegliatosi all’alba, si trafisse con un solo colpo sotto il capezzolo sinistro, e ora nascondendo la ferita a coloro che si erano precipitati nella stanza al suo primo gemito, ora mostrandola, spirò, e, secondo i suoi ordini, venne immediatamente cremato (Svet., Otone XI)”.
Aulo Vitellio, rinomato ubriacone e compare a suo tempo di Caligola, incontrerà un anno dopo una fine ben più disonorevole, fra lanci di sterco e umilianti, dolorose torture; Otone muore invece da magnanimo, dimostrando che non sempre coloro che arrivano per caso al supremo potere ne sono indegni.