Sono passate da poco le Idi marzoline, anche se dall’assassinio del loro sventurato protagonista sono trascorsi più di duemila anni.

Fra tutti i “personaggi illustri” della Storia mondiale Caio Giulio Cesare è forse il più carismatico e accattivante: merito di un talento poliedrico che gli consentiva di eccellere in qualsivoglia attività intraprendesse, oltre che della sua strabiliante, inedita capacità di “catturare le menti” di contemporanei e posteri. Non è un anacronismo definirlo il primo inviato di guerra embedded, ma la particolarità sta nel fatto che anziché al seguito di un esercito egli ne era alla guida. Certo: anche Ramses II e i sovrani assiri avevano pubblicizzato la loro versione degli eventi cui avevano preso parte, ma affidandone la stesura a schiere di scribi professionisti – il De bello gallico di Cesare è tutt’altra cosa, perché si presenta come un resoconto obiettivo, non ufficiale insomma, di una grande impresa militare, e l’intento propagandistico è ben dissimulato. Il condottiero-corrispondente è prodigo di notizie, aneddoti e giustificazioni, ci tiene a convincere il lettore della bontà della sua causa, ma senza mai svilire troppo il nemico: dà l’impressione di essere padrone della situazione anche nei frangenti più sfavorevoli. Le sconfitte (Gergovia su tutte) sono incidenti da minimizzare, le vittorie sempre frutto di un’accurata pianificazione e del valore di truppe fedeli e perfettamente addestrate. Non mancano le trovate geniali, come la fulminea costruzione e il successivo smantellamento di un ponte sul Reno (cui abbiamo già dedicato un articolo) e le tattiche innovative impiegate ad Alesia. L’uso della terza persona è un abile artificio: la voce narrante dialoga costantemente con il “suo” pubblico, lo avvince e persuade che quelle pagine che gli scorrono sotto gli occhi riportino una “verità” senza fronzoli. Non è per niente così, anche se non si può parlare di falsificazione: Giulio Cesare adatta e oggettivizza il proprio punto di vista.

Quest’uomo sa essere talmente affascinante che gli perdoniamo tutto: il (dichiarato) milione di galli uccisi durante le campagne, l’impiego strumentale della clementia, il trattamento indegno riservato a un avversario valoroso ma “inutilizzabile” come Vercingetorige, una certa temerarietà esibita ad esempio a Durazzo. Pensava in grande, e sapeva decidere (e muoversi) con una celerità sorprendente, che spiazzava gli antagonisti; inoltre, malgrado un buontempone belga abbia recentemente preteso di raffigurarlo come una sorta di idrocefalo, era avvantaggiato da un nobile aspetto: la figura slanciata, gli occhi vividi e penetranti e gli zigomi sporgenti su un volto affilato attiravano l’attenzione dei presenti, poi soggiogati, con poche eccezioni (Catone Minore su tutte) da un’oratoria impareggiabile. Benché fosse conscio di essere un grande seduttore non si beava, a differenza del rivale Pompeo, della superficiale adorazione delle masse: al pari degli uomini altolocati o umili con cui veniva in contatto le doti eccezionali erano al servizio di un progetto egemonico che egli andò affinando nel corso degli anni, man mano che le sue fortune crescevano. Si narra che vestisse con ricercata eleganza e fosse vanitoso: di sicuro non era un tipo trasandato (anche allora in politica contava l’apparenza!), ma soprattutto – ce lo dice Plutarco – si manteneva in costante allenamento fisico e mentale. Beveva poco e mangiava con moderazione: immagino allo scopo di essere sempre padrone di sé.

Una personalità straordinaria, insomma, dalle ambizioni smisurate e giammai frenata da scrupoli morali: non credo di essere stato il solo bimbo che, visitando Roma per la prima volta (nel lontano 1978), scelse di posare per una foto ricordo ai piedi della sua statua. In effetti la grandezza di uomini come Cesare non può essere misurata con il metro della morale borghese (che qualcuno definirebbe “da schiavi”): l’estrema perizia militare dimostrata in numerose guerre – tutte vinte – si sposa con un’intelligenza politica senza eguali, che regala al futuro dictator una vista lunghissima in una società di miopi. Per rimodellare la Res publica Lucio Cornelio Silla si era ispirato al passato, alla tradizione: Giulio Cesare invece “crea” il futuro e di Roma può a ragione considerarsi il rifondatore, dal momento che il suo progetto politico gli sopravvivrà di (almeno) cinquecento anni. Le riforme sociali, tutto sommato moderate, rifuggono dall’effimera logica del “tutto e subito”, quelle politiche sono poco appariscenti, ma incisive e durevoli: emblematico è l’infastidito rifiuto della corona regale offertagli da un Marc’Antonio (forse soltanto) su di giri.

Tuttavia nell’ultimissima fase della sua esistenza questo “spirito magno” assume decisioni e atteggiamenti che paiono contraddire l’impressione di gelida razionalità: penso ad esempio all’arrischiata (ed eccessiva) spedizione militare mirante alla sottomissione dell’impero partico e poi, sulla via del ritorno, alla conquista della Scizia e della Germania. Davvero una simile intrapresa avrebbe accresciuto la gloria del suo ideatore, fra l’altro in precaria salute e già in là con gli anni? Ancor più inesplicabile è la scelta, poco tempo prima delle fatidiche Idi, di congedare la guardia personale – eppure Cesare non poteva non avere sentore del malcontento da tempo serpeggiante fra i patrizi e persino in seno alla propria cerchia. Singolare anche la battuta rivolta all’indovino Spurinna la mattina stessa dell’assassinio (“Spurinna, come vedi le Idi sono arrivate!”): il dittatore, che era anche pontefice massimo, poteva benissimo non prestar fede ai vaticini, ma che le giornate si trascinassero fino a sera gli doveva essere noto…

Quello di Cesare sembra quasi un omicidio annunciato, a cui egli non tenta di sottrarsi – la sera precedente, a cena, a chi gli domanda quale morte si auguri di incontrare risponde secco: una fine rapida. Questo contegno non smette ancor oggi di instillare dubbi negli interpreti: non è che Giulio Cesare sapesse già come sarebbero andate le cose, sia stato cioè il regista del proprio ultimo atto? Certo il colpo di stilo inferto al miserabile Casca, quel coprirsi il capo con la toga… sono degni di un finale scespiriano non meno della frase (probabilmente apocrifa) con cui il morente si rivolse a Bruto (Marco o Decimo?). L’ipotesi non è poi così peregrina: stava invecchiando male, aveva perso i denti e da anni era tormentato da un misterioso morbo che gli antichi ritenevano fosse epilessia, ma poteva essere qualcosa di peggio – fatto sta che sempre più spesso gli capitava di perdere i sensi, come accadde (a quanto dicono) durante la vittoriosa battaglia di Tapso. Temeva forse di precipitare nella demenza, terminando ingloriosamente i suoi giorni? In fondo aveva già messo al sicuro la propria opera, individuando persino il successore ideale nell’ancor giovanissimo Ottaviano… meglio allora finire vittima di quello che sarebbe diventato il più celebre attentato della Storia.

Che sia andata così? Non lo sapremo mai. In una poesia da me scritta ai tempi del liceo azzardai una spiegazione opposta: “(…) Non vede minaccia / gli è lungi il timore / non cura né ‘l vate / né i sogni luttuosi: rimembra vittorie, / le mille sue imprese, / e quelle che nuove / ha deciso nel cuore.” Sottovalutazione insomma: oggi sono più propenso a credere al “suicidio assistito”. Nel bel romanzo “Lo scrivano di Cesare” Sergio de Santis propone una terza lettura, affidando all’ormai vecchio precettore Aristocle la seguente riflessione: “Io invece non credo che la sua fosse solo dignità o grandezza, ma anche paralizzante stupore: fino all’ultimo avrà cercato di escogitare qualcosa per salvarsi, ancora una volta, con una delle sue trovate istantanee e geniali, o grazie all’aiuto della sua famosa fortuna. (…) Sarà stato certo di farcela affidandosi alla sua incrollabile sicurezza interiore, simile a quella che si ha quando nel sonno si è convinti di poter uscire da un incubo, consapevoli che tutto svanirà al risveglio. Invece non si è risvegliato mai più (…).

L’enigma rimarrà per sempre insoluto, ma ancor oggi all’interno dei Fori imperiali, a Roma, c’è chi porta fiori nel luogo esatto ove il cadavere di Caio Giulio Cesare fu arso sulla pira funebre, ascendendo al cielo degli immortali.