In verità già Caio Gracco aveva presentato a suo tempo una proposta di legge che prevedeva che fosse la Repubblica a fornire gratuitamente ai coscritti “uniformi” (è un anacronismo, ma rende l’idea) e armi individuali, ma Mario va ben oltre: decide di fare di necessità virtù e offre alle masse proletarie della capitale – che vivevano di carità pubblica e piccoli espedienti – quello che oggi definiremmo uno sbocco occupazionale. Chiunque può arruolarsi nell’esercito di nuovo modello, non più di leva ma professionale: non solo l’equipaggiamento – che viene finalmente standardizzato – è a carico dello Stato, ma ai volontari viene garantito il soldo, cioè un (misero) salario, oltre a benefit legati a saccheggi et similia. In aggiunta ad allettare frotte di nullatenenti è la prospettiva, al termine di una lunghissima e perigliosa carriera, di ricevere come buonuscita un pezzetto di terra da coltivare. Per molti il pensionamento rimarrà un miraggio: la ferma è ultradecennale, la speranza di vita ancor più breve di quella media, ma il mestiere delle armi dona un minimo di prestigio sociale assieme all’occasione non disprezzabile di scoprire com’è il mondo di là del pomerium.
E’ un’autentica rivoluzione: scompaiono velites, hastati, principes e triarii, soppiantati dal legionario da “film storico” – anzi, dal mulo di Mario, capace di spostarsi a grande velocità portando sulle spalle (e addosso, dato che veste una cotta di maglia) una trentina abbondante di chili. L’addestramento è spossante, ma quando i Germani imboccano carichi di bottino i sentieri pirenaici diretti verso nordest trovano ad attenderli un esercito ben rodato e smanioso di battersi. Il primo grande scontro ha luogo ad Aquae Sextiae, in Provenza (102 a.C.): memori dei facili successi passati i Teutoni si gettano all’assalto, e vengono completamente disfatti. Si salvano in pochissimi: ai sopravvissuti tocca in sorte un futuro da schiavi. Ignari dell’accaduto i Cimbri dilagano in Italia attraverso il Brennero, sciamando nella pianura padana. Un anno è trascorso, Caio Mario attesta le sue truppe nei pressi dell’attuale città di Vercelli – e anche in questa seconda battaglia dà prova della sua avvedutezza tattica. Occupa con i suoi una modesta altura, forzando il nemico a un attacco in salita: i barbari, euforici, sottovalutano ancora una volta i Romani e, nell’imminenza della pugna, si ingozzano di cibo e bevande. Tutto va come Mario ha previsto: appesantiti dalle libagioni i Cimbri si arrampicano sul pendio con il sole mattutino in faccia e vengono accolti da interminabili salve di giavellotti che aprono ampi squarci nel loro schieramento. I superstiti, stanchi e accaldati, cozzano contro un muro di scudi da cui spuntano le lame spietate dei gladi: più che una sconfitta è un nuovo massacro. Ecco perché il console si è trovato in difficoltà contro la guerriglia condotta da Giugurta: la sua specialità sono le battaglie difensive.
La minaccia germanica si è letteralmente dissolta al sole delle Alpi, Caio Mario s’è meritato la gratitudine imperitura dei concittadini: è senz’altro l’uomo più potente e amato di Roma, anche se gli ottimati nutrono nei suoi confronti pregiudizi classisti e sospetti, non fugati dal recente matrimonio con una esponente della nobilissima Gens Iulia (una zia di Cesare). Console per cinque volte di seguito (non era mai accaduto in precedenza) l’arpinate è pur sempre vicino ai populares, e per mantenere gli impegni presi con i suoi veterani cerca alleanze “a sinistra”: solo che a disposizione non ci sono gli integerrimi Gracchi, bensì personaggi discussi come Saturnino e Glaucia, i capifazione che passa il convento. Costoro sono animati da sincere idee “progressiste” (anche in tema di estensione della cittadinanza), ma, non immemori della triste fine incontrata dai loro predecessori, ricorrono senza remore alla violenza e all’assassinio politico: indeciso sul partito da prendere il console Mario si rassegna infine ad attuare il senatoconsulto ultimo e partecipa alla cruenta soppressione dei due “sovversivi”, che pure rivestono importanti cariche pubbliche. L’arpinate avrebbe potuto comportarsi diversamente e assumere per davvero i pieni poteri: prevale tuttavia la sua mentalità legalitaria e – in fondo – moderata, non disgiunta da un’evidente inettitudine politica. Egli si situa al confine fra due mondi inconciliabili, è quando è costretto a scegliere dimostra di non possedere una visione strategica e si affida alla convenienza del momento.
Malgrado il suo ruolo nella repressione del moto democratico Caio Mario viene progressivamente emarginato: l’élite senatoria non ha più bisogno di lui e i democratici faticano a perdonargli il voltafaccia. Nel corso della guerra sociale seguita all’omicidio dell’onesto e lungimirante Marco Livio Druso (pure questo crimine va ascritto alla fazione reazionaria) l’arpinate rimane pressoché inoperoso: per gli standard dell’epoca è ormai vecchio, avendo superato la sessantina, e sono in molti a scommettere su un suo ritiro definitivo dalla scena politica. I popolani però lo amano ancora: celebrano in lui l’homo novus dai modi affabili che si è fatto da sé e ha salvato l’Urbe dalla distruzione assicurando, nel contempo, a schiere di miserabili un impiego e una paga. Col passare degli anni si è acuita la rivalità con Lucio Cornelio Silla, divenuto il campione di quell’aristocrazia che in segreto disprezza: quando il senato sceglie il biondo patrizio come duce nella guerra contro Mitridate le masse urbane insorgono gridando il nome di Caio Mario, terzo fondatore di Roma.
A differenza del suo ex comandante Silla non esita, e marcia sulla capitale: Caio Mario è costretto a fuggire fino in Africa per non finire ammazzato. Stavolta però non rinuncia a lottare sino in fondo (per la sua dignitas, più che per un astratto ideale di giustizia) e stretto un patto con un altro fuggiasco, il console Lucio Cornelio Cinna, riesce dopo la partenza sillana per l’Oriente a ritornare a Roma con un esercito incattivito. Sa di aver poco tempo e di essere affetto da un male che forse gli obnubila la mente: con gli arroganti ottimati che, mal sopportandolo, l’hanno sempre usato i conti vanno saldati in fretta. Mario non mostra alcuna pietà verso coloro che, in precedenza, ne avevano avuta ancor meno per gli avversari politici: a Roma il sangue scorre abbondante. Qualcuno ipotizza che l’anziano imperator sia impazzito, altri lo corteggiano per acquisirne i favori; il settimo consolato dura però appena un mese, al termine del quale un colpo apoplettico pone fine alla vita del grande generale, che non lascia eredi alla sua altezza (ci sarebbe Quinto Sertorio, che però cerca fortuna in Iberia). Silla ristabilirà l’ordine “di classe” al prezzo di un’interminabile carneficina; poi, in procinto di ritirarsi a vita privata, intravedrà in un giovanissimo Caio Giulio Cesare “molti Marii”.
La Storia avrebbe confermato ad abundantiam la giustezza della predizione sillana.
(fine seconda e ultima parte)