Abbiamo già appurato che tra Canne e il rientro in Africa di Annibale passano ben quattordici anni, che però – contrariamente all’opinione corrente – non costituiscono affatto un buco nero, visto che gli autori antichi sono prodighi di informazioni sul periodo. E’ lecito dire semmai che quel lungo susseguirsi di episodi non fa più notizia e resta perciò quasi interamente sullo sfondo, dandoci l’erronea impressione di coincidere con una “tisi militare” di crispiana memoria.
L’immagine (popolare) del condottiero che impigrisce al sole del Mediterraneo è un falso grossolano. Capua, ove egli trascorre relativamente poco tempo, non era all’epoca una località di villeggiatura, bensì la seconda città della penisola per prosperità economica e numero di abitanti: Annibale vuole portarla dalla sua parte, e vi riesce. Che poi conceda a un esercito logorato e a se medesimo – aveva da poco perso la vista di un occhio – un tantino di riposo dopo mille peripezie non deve sorprendere: sapeva di essere solo un uomo, a capo di altri uomini.
Ha in testa un disegno chiarissimo: quello di staccare gli alleati da Roma per minare le fondamenta della sua potenza militare. In pianura padana ha avuto gioco facile, dal momento che i riottosi celti erano stati appena soggiogati; nell’Italia centrale le cose sono invece andate diversamente, perché le popolazioni sono ormai romanizzate. Il Sud d’impronta greca rappresenta un’opportunità da cogliere, se non altro perché ospita alcune fra le comunità più ricche ed evolute: i terroni di 2.200 anni fa eravamo “noi” settentrionali!
La pensata è dunque giusta e pare anche vincente, considerato che all’indomani di Canne le defezioni si moltiplicano e molte cittadine aprono speranzose le porte allo straniero. I romani non stanno però a guardare: arruolano nuovi eserciti, facendo abili persino gli schiavi, e contrastano armi in pugno la “campagna acquisti” del Barcide. Basta in genere la sua presenza a tenerli lontani, ma egli non può essere ovunque: nei centri lascia sparute guarnigioni, che però assottigliano le file dell’armata cartaginese e non sempre sanno dialogare con gli autoctoni.
Mentre scoppiano rivolte anche in Sicilia e in Sardegna Annibale gira come una trottola per le contrade della Magna Grecia e talvolta si imbatte nei nemici. I romani si assegnano ottimisticamente qualche vittoria (Grumentum, ad esempio) che, ancorché “letteraria”, fa morale, ma a fermare il punico sono solamente le piazzeforti e la carenza di rifornimenti dalla madrepatria: quando si arriva allo scontro campale i quiriti rimediano sconfitte disastrose, come ad Ordona nel 212 a.C.
Non va però sottaciuto che si tratta di episodi isolati, quasi privi di conseguenze: Roma seguita a sfornare legioni magari di discutibile efficienza bellica ma bastevoli ad assicurarle la lenta riconquista dei territori perduti, Campania (Capua) e Puglia (Taranto) comprese. Seguono punizioni severissime, ma neppure Annibale è tenero con i (ri)voltagabbana.
Ecco perché i nomi delle battaglie sono stati presto obliati: perché a contare davvero sono i saccheggi, i roghi di raccolti e città, i massacri, la riduzione in schiavitù di popolazioni intere ad opera dell’una e dell’altra parte. Dopo Canne quello ingaggiato tra Annibale e il Senato non è più un conflitto per così dire tradizionale, bensì una guerra totale sullo stampo di quella combattuta due secoli prima nel Peloponneso o di quella che nel ‘600 desertificherà la Germania.
Non a caso Mario Silvestri, affascinante figura di ingegnere con la passione per la Storia, paragonerà quell’infausto quindicennio alle due guerre mondiali evidenziando che “I 300.000 caduti italici nei 16 anni di guerra, su una popolazione parecchio inferiore ai 4 milioni di abitanti rappresentano una mortalità media dello 0,5 per cento (La vittoria disperata, pag. 525)” raffrontabile addirittura a quella sovietica tra il ’40 e il ‘45, mentre altri commentatori indicano le devastazioni prodotte da Annibale e la feroce reazione romana fra le cause della successiva perdurante arretratezza di regioni all’epoca fiorenti.
In ultima analisi il piano di Annibale non ha successo da un lato perché egli non riesce ad accreditarsi convincentemente come liberatore di popoli eterogenei e sospettosi, dall’altro per la cocciutaggine dei romani, determinati ad attingere fino in fondo alle loro riserve. La tattica della terra bruciata messa in atto da ambo i contendenti genera tuttavia effetti che vanno molto al di là delle intenzioni: l’interminabile contesa provoca con lo spopolamento dei territori il declino della piccola proprietà contadina, che verrà inglobata nel latifondo, e di seguito una forte richiesta di manodopera che, non essendo disponibile in loco, andrà importata da terre straniere sotto forma di instrumenta vocalia, cioè di schiavi.
Lungi dal determinare un ripiegamento entro i confini il traumatizzante calo demografico registratosi durante la Seconda Guerra Punica spronerà Roma, sotto la guida di un’élite rinnovata e “cosmopolita”, ad un espansionismo senza precedenti che le regalerà in meno di due secoli l’egemonia sull’Europa e il Mediterraneo, trasformandola infine da repubblica oligarchica in Impero.
Tocca concludere che Annibale Barca ha ottenuto il contrario di quel che si prefiggeva, e che perciò è stato doppiamente sconfitto. Se sono vere le parole che Tito Livio gli attribuisce in punto di morte (“Quanto sono cambiati i romani, soprattutto nei costumi”) possiamo aggiungere che egli si rese conto, all’ultimo, di essere stato strumento di un destino beffardo.
Cinico e spietato all’occorrenza, ma mai gratuitamente crudele, fu un formidabile improvvisatore dalle solide basi teoriche e seppe ridere di sé e del mondo. Spese la vita a combattere non per corone e fama, ma mosso dal patriottismo; al pari di Giulio Cesare si rivelò un uomo dall’ingegno sconfinato e versatile che avrebbe potuto eccellere in ogni campo, da quello economico all’urbanistica.