Ho visitato il Galles una decina abbondante di anni orsono, quando ancora avevo il tempo, la voglia e la possibilità di viaggiare: è una terra ricca di fascino, di un verde ineguagliabilmente intenso sotto un cielo che, come quello d’Irlanda, “si riempie di nuvole e luce” passando in un istante dalla pioggia al sereno.

La mia meta era Newtown, una vivace cittadina della contea centro-orientale del Powys: pregevoli le case a graticcio e ottima la birra che si sorseggia in pub simili ai vecchi buffet di Trieste, ma a spingermi da quelle parti non era stata la curiosità di scoprire un pezzettino di mondo.

La località, che nel medioevo ospitava una fiera e più tardi fu coinvolta nella Rivoluzione industriale, deve la propria modesta fama al figlio più illustre: quel Robert Owen che, nato da queste parti il 14 maggio 1771, assurse ben presto a celebrità e, se vogliamo, a dicotomia vivente, impersonando il ruolo di imprenditore di successo e – contemporaneamente – quello di riformatore radicale.

Veniva da una famiglia tutt’altro che benestante (il padre era postino) e, pur avendo rivelato fin da bimbo brillanti doti intellettuali, gli toccò abbandonare la scuola prima dei dieci anni e impiegarsi come operaio nella vicina Inghilterra, allora in pieno boom economico. Non lo attendeva un destino di instrumentum vocale/risorsa umana: grazie a laboriosità, inventiva e perspicacia a soli diciott’anni era già in affari e un biennio dopo assunse la guida di una fabbrica tessile a Manchester.

Sembra un’anticipazione del famoso “sogno americano”, ma Robert non era tipo da fermarsi alle apparenze: comprese ben presto che il miracolo economico britannico – un fenomeno mai registrato prima nella Storia – si fondava sullo sfruttamento e sulla brutalizzazione dei lavoratori, fra i quali numerosissimi erano i bambini, condannati a un’esistenza di stenti e a una morte precoce.

Avrebbe potuto appagarsi della propria fortuna, frutto di abnegazione e fatica, e invece si ripromise di cambiare le cose, di offrire una chance agli schiavi dell’industria. L’occasione gli fu regalata dal matrimonio con Catherine, la figlia di David Dale, un imprenditore scozzese capace di creare dal nulla a New Lanark il più grande cotonificio del Regno Unito.

Per i parametri dell’epoca Dale è tutt’altro che un negriero, ma le condizioni in cui versa la comunità sgomentano il nuovo arrivato: l’alcolismo dilaga, i genitori preferiscono mandare i figli in fabbrica piuttosto che a scuola, gli orari di lavoro raggiungono per tutti le 13 ore giornaliere. Il fondatore passa il testimone al genero, nelle cui idee ripone grande fiducia, ma “assumere il governo di New Lanark” non è impresa semplice: Robert è “un gallese tra gli scozzesi” e tanto gli operai quanto gli azionisti ostentano inizialmente sfiducia nei suoi confronti.

Riuscirà ben presto ad entusiasmare i primi e a rassicurare i secondi (non tutti), dopo averli sconcertati con un piano di riforme shock che prevede la costruzione di un grande edificio scolastico con annesso asilo, l’istituzione di un fondo malattia, l’introduzione dell’assistenza sanitaria gratuita per lavoranti e famiglie, l’edificazione di alloggi salubri e confortevoli per le maestranze al cui svago vengono destinati spazi ricreativi comuni.

E’ un’autentica rivoluzione teorizzata nel saggio “Una nuova visione della società”, dato alle stampe nel 1813: Owen afferma che l’essere umano è il prodotto delle circostanze in cui viene a trovarsi, che si combinano con le sue qualità naturali nel formarne il carattere. E’ la conoscenza a rendere l’uomo buono e altruista, dichiara: di qui l’enfasi sull’importanza dell’educazione e dell’istruzione generalizzate, che sole possono permettere ai giovani di dar vita, in futuro, all’auspicata Nuova Società egualitaria. Quello plasmato dal genio di Robert è un mondo senza punizioni, a scuola e in fabbrica: per far raggiungere i risultati attesi sono necessari (e sufficienti) il convincimento, la formazione e il buon esempio.

Malgrado vada sfacciatamente controcorrente il manager gallese ottiene risposte eccellenti in termini di produttività e guadagno per gli investitori, provando che si può fare impresa senza scorticare le pecore. Il mondo degli affari plaude (ai profitti), ma resta sordo agli accorati appelli – al pari della classe politica, che lascia cadere i suoi suggerimenti di riforma. Il c.d. massacro di Peterloo suona come un sinistro monito: è tempo di rassegnata obbedienza, non di rivolgimenti sociali.

Owen si è illuso che sia l’ignoranza a generare cattive azioni, comportamenti scorretti: la massima varrà forse per i proletari che affollano l’osteria, non certo – inizia a capirlo – per i “padroni del vapore”, che intendono benissimo ciò che stanno facendo. Quello che non riesce ad afferrare è il motivo di una resistenza tanto dura e caparbia, che lo sconcerta: non lo sfiora il pensiero che il mondo sia diviso in classi, alcune delle quali hanno coscienza di sé e sono pronte a tutto pur di conservare il potere.

L’errore è scusabile, perché lui stesso partendo da molto in basso è giunto molto in alto – e da “misura di tutte le cose” è tentato di scambiare l’eccezione per la regola. Incomincia tuttavia a diffidare dei suoi pari, che prendono a loro volta a guardarlo con sospetto: chi è questo parvenu che si è messo in testa di rivoluzionare le regole del gioco?

Owen avverte di essere finito in un vicolo cieco: disperando in un accoglimento delle sue proposte di regolamentazione del lavoro minorile, pur relativamente moderate, abbandona la Scozia e New Lanark – dove ha gettato il seme del futuro Stato sociale – e si imbarca per il Mondo Nuovo, gli Stati Uniti d’America. Colà acquisterà un vasto appezzamento di terra e fonderà la comunità di New Harmony (siamo negli anni ’20), retta secondo principi comunisti.

Il prototipo dei “villaggi della cooperazione”, la cui istituzione aveva caldeggiato in patria (più come scommessa sul futuro che come rimedio alla disoccupazione postbellica), sorge dunque nell’Indiana, ma l’esperimento sociale purtroppo fallisce. Immigrati e avventurieri di ogni risma affluiscono in massa a New Harmony, ma non tutti si mostrano disponibili a seguire le direttive di “un dio benevolo ma onnipotente” (Owen, nelle parole di un biografo), che nuovamente deluso getta la spugna e fa vela per l’Inghilterra, lasciando l’amministrazione al figlio.

Quali le ragioni dell’insuccesso? Un ruolo può aver senz’altro giocato l’individualismo di molti coloni in cerca di fortuna e assai meno avvezzi alla disciplina rispetto agli operai scozzesi, ma è l’idea stessa di rifugiarsi in un mondo parallelo a quello capitalista – una sorta di riserva… indiana ante litteram – ad apparire perdente e rinunciataria.

L’utopismo rimproverato al primo Owen sta in questa duplicità di atteggiamenti: di fiducia dapprincipio nella redimibilità dell’élite, una volta che essa si sia resa conto dell’ingiustizia del trattamento inflitto ai poveri, e di rifiuto in un secondo momento a confrontarsi con una realtà spiacevole, ma ineludibile.

Alle soglie dei sessant’anni, tuttavia, il filantropo gallese sembra aver imparato la lezione: preso atto che il suo progetto di trasformazione sociale incontrerà l’opposizione del padronato è nondimeno deciso a metterlo in atto. L’uomo di Newtown non è un sognatore, bensì un “idealista pratico” – stavolta sarà lotta di classe.

(La seconda parte verrà pubblicata sabato 13 marzo)