Certo, che il nostro giovanotto avesse un’altissima opinione di sé è difficilmente contestabile, parecchie sue uscite lo dimostrano e in primis la frase che, a quanto riportato dalle fonti, era solito pronunciare in greco: “chi osa farmi da maestro?”. Quanto alla passione per il vino e le dissolutezze essa si manifestò non appena le circostanze lo consentirono: a Capri era rischioso lasciarsi andare all’ubriachezza (e allo sproloquio!) sotto l’occhio vigile degli informatori di Tiberio. E’ ragionevole pensare che la terribile prova della malattia abbia insegnato a Gaio che, quale che sia il ruolo sociale rivestito, l’esistenza è per tutti un tiro di dadi – e allora a che pro recitare una parte a beneficio dei sudditi se si ha la possibilità di bere la vita fino alla feccia?
Dopo una gioventù “mimetica” il figlio di Germanico rivelò ai romani la sua “sfrontatezza” (di cui si vantava pubblicamente): si divertiva a impressionare e sbalestrare un uditorio vasto quanto il suo impero. Tra le imprese più sbalorditive figura la realizzazione di un ponte di legno tra Baia e Pozzuoli lungo 4-5 km che il principe percorse a cavallo e il giorno dopo a bordo di una quadriga: secondo Svetonio (“io ho sentito spesso raccontare da mio nonno, durante la mia infanzia…” – XIX) fu una beffarda smentita della profezia dell’astrologo Trasillo, che avrebbe detto “Gaio non ha maggiori possibilità di diventare imperatore di quante non ne abbia di attraversare a cavallo il golfo di Baia”.
Ed eccoci al tratto forse più stupefacente del carattere di Gaio Caligola: più che una compiaciuta teatralità, la propensione al sarcasmo e un senso dell’umorismo tendente al nero che ricorda un poco quello di un altro famigerato autocrate, Josip Stalin. Talune prove della proverbiale crudeltà del principe possono essere lette in chiave di battute di spirito: l’ordine semiserio di dare in pasto alle belve tutti i calvi di una prigione non meno dello scoppio di ilarità che lo colse durante un sontuoso banchetto, seguito da una poco rassicurante frase di spiegazione rivolta agli sbigottiti commensali (i due consoli) “Che altro, se non il pensiero che con un semplice cenno del capo potrei farvi immediatamente sgozzare entrambi? (Svet. XXXII)”.
All’occorrenza Caligola non rinunciava a sbeffeggiare i fanti, anche se lo strano episodio della raccolta di conchiglie cui furono costretti sulla spiaggia i legionari prossimi all’invasione della Britannia (che non ci fu) può essere interpretata come un’umiliazione inflitta dall’imperatore a truppe infiacchite dall’ozio. In quell’occasione Gaio dosò prudentemente bastone e carota: alla punizione seguì un donativo. In altre circostanze l’imperatore non disdegnò di prendere di mira i “santi” (o presunti tali): a una delegazione di ebrei alessandrini guidata dal dotto Filone che cercava di esporgli i fondamenti del proprio credo e di invocare benevolenza egli domandò disinvoltamente per quale ragione non si cibassero di carne di maiale, per poi congedare divertito gli inviati osservando che in fondo non piaceva troppo nemmeno a lui.
Siamo di fronte a un uomo che, esperto della meschinità e delle debolezze umane, non prendeva nulla sul serio, neppure se stesso: notoriamente terrorizzato da tuoni e fulmini fece costruire una macchina per riprodurli (così ci raccontano) e una volta, infastidito da un acquazzone che aveva interrotto uno spettacolo, incolpò direttamente Giove Pluvio sfidandolo ad alta voce: “o tu o io!” Assai più nota è la vicenda che ha per inconsapevole protagonista il cavallo Incitatus, ma in questo caso lo sberleffo non è fine a se stesso: lasciando trapelare il vagheggiamento di nominare console il proprio destriero l’imperatore intendeva da un lato rimarcare di avere i “pieni poteri”, dall’altro sottolineare la decadenza di un senato composto da personaggi indegni, servili e dappoco.
Capitolo crudeltà: prima di morire di spada a meno di ventinove anni Gaio scoprì e represse alcune congiure, i cui animatori furono uccisi o esiliati – fin qui nulla di anomalo. Gli antichi attestano però un numero indefinito ma cospicuo di atrocità commesse gratuitamente, potremmo dire per spasso, e un sinistro comando impartito ai carnefici (“che sentano di morire!”) in linea con l’indole del protagonista.
Di sicuro la demonizzazione postuma ha ingigantito i crimini di un uomo che si rese inviso all’élite (anche) per la sua schiettezza e che non lesinava giudizi feroci, ma acuti: di Seneca disse che la sua oratoria era “harena sine calce”, cogliendo perfettamente l’ipocrisia di un ottimate che, atteggiandosi a stoico, non perdeva occasione per accrescere patrimonio e influenza politica. Esagerazione fa rima con invenzione, ma i due termini non sono sinonimi: non è implausibile che il sottile e caustico Gaio Cesare ne abbia fatte di cotte e di crude, poiché la vita umana non la teneva in gran conto.
Questo non significa che fosse matto, ma mettendo insieme gli indizi ci imbattiamo in un talentuoso psicopatico amorale, che mischiò cinismo e sogni scavandosi quasi con voluttà la fossa – visto che, malgrado le pose, non era affatto Dio. Stando a quanto tramandano l’ultimo scherzo gli fu fatale: era abituato a scegliere parole d’ordine volgari o insultanti e i pretoriani, esaurita la sopportazione, gli presentarono il conto col gladio, in una fredda mattina di gennaio. Questo narra Montanelli nella sua Storia di Roma, ma è chiaro che l’eliminazione di un governante scomodo era nell’interesse di molti, forse dell’intera oligarchia romana che, sebbene privata del potere effettivo, contava ancora parecchio. Il popolino invece non gli era ostile (come non lo fu, più tardi, nei confronti di Nerone).
La burla più riuscita di Gaio, soprannominato “Sandaletto”, consisté nel persuadere mezza classe dirigente che con lui sarebbe asceso al trono il fantasma del pio Germanico – di sicuro le sue mattane non arrecarono particolari danni a Roma, eccezion fatta per una passeggera crisi finanziaria.
Registriamo in anni recenti un crescente interesse intorno alla sua figura, testimoniata dalla pubblicazione di biografie e romanzi: fra questi ultimi menzionerei il commovente “Le navi di Nemi – il sogno perduto di un imperatore” di Maria Grazia Siliato e il non meno appassionante “L’imperatore dannato” di S. J. Turner. Si direbbe che il “mostro”, sopravvivendo alla propria dipartita, abbia vinto la scommessa fatta col destino – e seguiti a ridere di gusto dei suoi detrattori.