Secondo Alessandro Barbero, storico apprezzatissimo non solo dal sottoscritto, alla vigilia della campagna contro i Goti culminata nel disastro di Adrianopoli (378 d.C.) l’Impero Romano aveva raggiunto un assetto stabile e godeva, nel suo complesso, di buona salute.
Un secolo prima l’interminabile anarchia militare ne aveva messo a repentaglio addirittura la sopravvivenza, ma la risolutezza e i metodi spicci di sovrani del calibro di Aureliano, Diocleziano e Costantino avevano scongiurato un collasso dato per imminente, riassestato l’economia e reso abbastanza sicuri i confini.
Malgrado ciò di crisi è lecito parlare, e si tratta di una crisi di identità e – per così dire – di vocazione: col trascorrere dei decenni il centro di gravità della Res publica si era andato spostando sempre più verso oriente, e assieme alle istituzioni l’élite stessa si era “delatinizzata” acquisendo un carattere cosmopolita inimmaginabile ai tempi dei Giulio-Claudii, romani doc.
A celebrare il millenario della fondazione dell’Urbe fu un imperatore d’origine araba e nelle cancellerie il greco aveva quasi soppiantato il latino, ma c’è di più: scomparse le legioni che avevano assoggettato l’ecumene le forze armate constavano allora – siamo nel III-IV secolo – di milizie territoriali (i limitanei che sorvegliavano i confini) e del comitatus, l’ipertrofica guardia mobile al seguito del monarca e dei suoi vice, i Cesari.
Queste armate permanenti, composte da soldati ben addestrati e ancor meglio equipaggiati, erano etnicamente composite, ma buona parte delle reclute – e persino degli ufficiali e dei comandanti – erano di origine “barbara”, e segnatamente germanica. C’è un ulteriore elemento da prendere in considerazione: con la morte di Traiano, avvenuta oltre duecento anni prima, Roma aveva esaurito la sua spinta propulsiva.
Già i principi-filosofi del II secolo avevano accantonato ambiziosi progetti di ampliamento, occupandosi essenzialmente della manutenzione dell’esistente: i confini, percepiti dai predecessori come un punto di partenza, erano diventati muraglie dietro cui ripararsi.
Il mondo d’altra parte era cambiato. Assorbiti i regni organizzati in Europa e Asia era rimasto in campo un unico contendente di peso: l’Impero Persiano dei Sassanidi, troppo vasto e potente per essere conquistato ma, al contempo, troppo debole per rappresentare una minaccia mortale per “Roma”.
Gli scontri erano frequenti e aspri, ma mai decisivi: la sola esistenza della Persia frustrava qualsiasi brama espansionistica nel continente asiatico (non a caso l’equilibrio/stallo tra le due grandi potenze sarà rotto, tre secoli dopo, dall’apparizione di un imprevisto terzo incomodo: gli arabi investiti di una “missione”).
Le frontiere europee, a loro volta, erano tracciate quasi per intero dal corso di grandi fiumi, al di là dei quali vivevano popolazioni considerate primitive da cui provenivano insidie e, all’occorrenza, manodopera a basso costo: né l’acquitrinosa Germania né gli altopiani di Scozia suscitavano appetiti, mentre la steppa disabitata che si estendeva oltre il Danubio era terra incognita.
Non restava insomma nulla di conquistabile e così, nel II secolo, erano iniziate le lotte intestine, inframmezzate da guerre difensive contro orde barbariche emerse dal nulla. Questo ristagno infiacchiva gli animi, ed era in certa misura aggravato dal diffondersi del cristianesimo che, nonostante gli sforzi di sintesi operati da Paolo di Tarso, appariva a molti incompatibile con il mos maiorum.
Non mancarono principi risoluti ad andare controcorrente e a tornare all’antico: merita segnalare la figura di Giuliano, che regnò dal 361 al 363 d.C. I propagandisti cristiani lo hanno bollato come Apostata, ma non lo fu: finse soltanto in tenera età di abbracciare la nuova religione (non ancora ufficiale, ma promossa dalla spietata famiglia di Costantino), conservando nell’animo la fede pagana.
Non dobbiamo figurarci un idolatra: uomo coltissimo e dedito agli studi, Giuliano era imbevuto di filosofia greca e riteneva – non a torto – che un ritorno alle radici culturali di una romanità ellenizzata potesse restituire vitalità alla Res publica in disfacimento.
Già Cesare ma ancora giovanissimo aveva dato prova di insospettate doti militari, annientando in Gallia una forza preponderante di Alemanni e Franchi (la campagna è narrata da Frediani e D’Amato nel pregevole saggio L’ultima vittoria dell’Impero Romano); poi, costrettovi o quasi dall’ostilità del terribile Costanzo II, aveva accettato che i suoi soldati lo acclamassero imperatore. Governò per breve tempo ma bene, dimostrando acume, equanimità, temperanza, onestà personale e doti amministrative non comuni.
Il massimo storico dell’epoca, Ammiano Marcellino, traccia di lui un ritratto lusinghiero e colorato da sincero affetto, rimproverandogli difetti di poco conto quali la loquacità, un certo autocompiacimento e un eccesso di zelo religioso che giammai sfociò in persecuzioni.
Purtroppo però questo giovane integro e promettente, che avrebbe davvero potuto rivitalizzare un’organizzazione in piena decadenza, incontrò la morte a soli 32 anni durante la guerra contro i Persiani, da lui intrapresa con spirito di conquista: non sappiamo se a causarla sia stata la proverbiale freccia del parto o… “fuoco amico”, quel che è certo è che il suo programma di rinnovamento (o di restaurazione) si interruppe all’improvviso.
Tutto questo ce lo racconta il già citato Ammiano, testimone prezioso per una serie di motivi: il primo è che era un uomo piuttosto dotto, pieno di curiosità intellettuale (interessantissime, nelle sue Storie, le digressioni sui costumi dei vari popoli e persino su fenomeni naturali come l’arcobaleno) e capace di leggere in profondità l’animo umano.
Il secondo e più rilevante è che a molte delle imprese descritte il nostro ha partecipato di persona: era infatti un greco (ci tiene a precisarlo) di famiglia altolocata che, arruolatosi in gioventù nell’esercito, fece rapidamente carriera ed ebbe così modo di conoscere e interloquire con molti fra i protagonisti della sua opera.
Da lui sappiamo che Giuliano detestava le raccomandazioni (diffuse a quei tempi non meno di quanto lo siano oggi!) e si circondò di personaggi di cui si fidava: uno spoils system basato però su un’attenta valutazione dei meriti individuali. Nella cerchia del nuovo imperatore trovò posto un suo cugino di pochi anni più vecchio, che si chiamava Procopio e veniva dalla Cilicia.
Ad Ammiano bastano poche parole per inquadrarlo: “Da quell’uomo serio e costumato che era, sebbene fosse riservato e taciturno, prestò servizio a lungo e intelligentemente come notarius e tribunus (…) associato al gruppo dei comites (…) mentre eseguiva gli ordini con moderazione e prudenza, apprese che Giuliano era deceduto per una ferita mortale (Storie, XXVI 6,1-3)”.
Apprendiamo anche che quest’uomo assennato possedeva attitudine al comando, e la diceria – riportata dallo storico, che non mostra di darle troppo credito – secondo cui Giuliano avrebbe pensato a lui come possibile successore suggerisce se non altro che il sovrano aveva del parente un’alta opinione e che ai contemporanei la designazione di Procopio non doveva apparire inverosimile o scandalosa.
(La seconda ed ultima parte verrà pubblicata sabato 3 luglio)