Nella Storia come nel ciclismo ci imbattiamo in “gregari” che si appagano dei servizi resi al campione e di qualche successo di tappa, e in corridori di seconda fascia che, a un certo punto della carriera, aspirano ai gradi di capitano: fra questi ultimi annovero senz’altro Tito Labieno, un eccellente comprimario che ambì a diventare protagonista assoluto del Bellum civile.

Delle sue origini sappiamo relativamente poco: nato nel Piceno intorno al 100 a.C., e dunque coetaneo di Giulio Cesare, viene citato nelle fonti senza alcun nome gentilizio – da ciò è possibile desumere che provenisse da una famiglia di recente romanizzazione e che appartenesse alla folta schiera dei clientes di Gneo Pompeo Magno, il cui padre (pure lui homo novus) era una sorta di ras delle attuali Marche. Famiglia non illustre quella di Tito, ma certo di possidenti, visto che egli compare sulla scena politica romana piuttosto presto risparmiandosi la lunga gavetta fatta da militari di professione come Marco Petreio, il vincitore di Catilina. Nel 63 a.C. riveste il tribunato della plebe, quattro anni più tardi la prestigiosa carica di pretore: il 59 a.C. è un anno da ricordare poiché coincide con il primo consolato di Caio Giulio Cesare, a sua volta frutto dell’alleanza informale fra il futuro dictator, Pompeo e Crasso. Nel programma da realizzare figura – al primo posto – la distribuzione delle terre ai veterani del Magno: l’obiettivo viene raggiunto malgrado la rabbiosa opposizione degli ottimati, e l’appoggio del fedelissimo Tito si rivela prezioso. In sostanza egli è uomo di Cesare e al contempo di Pompeo, in quel momento vicinissimi, ma il personaggio maggiormente in vista è il secondo, che può vantare allori militari ancora freschi. L’unità di intenti fra i due leader è comunque saldissima, suggellata com’è dal matrimonio (d’amore, pare) fra Gneo e Giulia, figlia di Cesare, oltre che dal sostegno politico-finanziario assicurato da Marco Licinio Crasso, che ha puntato sin dall’inizio sul rampollo della gens Iulia.

L’anno dopo (58 a.C.) Cesare ottiene, in qualità di proconsole, il governo delle province galliche: quella transalpina è solo in minima parte soggetta a Roma, che pure ha stretto vincoli di alleanza con alcune importanti tribù, fra cui gli Edui. Che l’ambizioso patrizio vagheggi l’annessione di quei vasti territori è fuor di dubbio: non mancheranno i pretesti per intervenire militarmente, e il primo viene offerto dall’elvezio Orgetorige. Per portare a termine un’impresa tanto impegnativa Cesare ha bisogno di collaboratori fidati: non è dunque sorprendente che “arruoli” sin da subito Tito Labieno, assieme al quale ha già combattuto in passato. L’ex pretore dimostra spiccate doti di comandante: il dux gli concede ampia autonomia e lui lo ripaga sbaragliando, tra gli altri, i Morini, gli Atrebati e i temutissimi Belgi. Sono in molti ad illustrarsi durante la lunga e difficile campagna (Decimo Bruto, Quinto Cicerone, Gaio Trebonio, Crasso iunior ecc.), ma il ruolo di luogotenente del proconsole spetta senz’altro a Labieno che, in assenza di Cesare, assume il comando delle legioni e fronteggia con abilità le ricorrenti rivolte. Leggiamo fra le righe dei Commentari velate accuse di brutalità nei suoi confronti, ma da questo punto di vista Giulio Cesare non gli è certo da meno e in ogni caso il nome di Tito Labieno lo incontriamo spessissimo nelle pagine dettate agli scrivani – e quasi sempre il tono è elogiativo. La cavalleria gioca un ruolo non secondario nelle concezioni militari cesariane, che privilegiano la velocità e l’attacco a sorpresa: brillantemente condotta dal piceno essa diviene ben presto il martello e il terrore degli infelici Galli.

Cementato da quasi un decennio di collaborazione il rapporto fra i due uomini appare indissolubile, tanto che Cesare investe il sottoposto del governo della Cisalpina, ma prima che il dado sia tratto accade qualcosa di clamoroso: Labieno si schiera con il partito degli ottimati e abbandona il proconsole (proprio nel momento più delicato). Quali le ragioni di una defezione che sa di voltafaccia? Cesare afferma di aver udito che il suo braccio destro “era sobillato dagli avversari”, ma non fornisce una spiegazione puntuale e dopo quel fuggevole accenno si disinteressa apparentemente della questione: la perdita tuttavia dev’essere stata dolorosa, perché lo coglie come detto in una fase di particolare difficoltà.

Nel silenzio delle fonti azzardiamo qualche ipotesi.

In difetto di riscontri appare decisamente inverosimile che, dopo decenni di militanza fra i populares, Labieno abbia abbracciato d’impeto, per intima convinzione, la causa (reazionaria) degli optimates, gruppo sociale di cui non faceva parte; meno assurdo è immaginare che sentisse di avere un debito di riconoscenza o nutrisse solidarietà nei confronti del conterraneo Gneo Pompeo, che fu trascinato controvoglia nella guerra civile. Se consideriamo che anche dopo la tragica morte del Magno egli rimase accanto ai suoi figli l’interpretazione acquista un minimo di plausibilità, ma essa non ne esclude un’altra – decisamente meno lusinghiera. Servendo sotto Cesare l’accorto Labieno ha avuto modo di apprezzarne le doti eccezionali di tattico e stratega, e probabilmente si rende conto che un Pompeo invecchiato e la sua corte di boriosi politicanti non sono avversari all’altezza. Crede tuttavia di esserlo lui: prima della battaglia di Farsalo si vanterà di aver ben appreso il modus operandi cesariano e si dirà certo di poterlo battere – è proprio Tito Labieno a incitare con veemenza allo scontro il perplesso comandante in capo. Possibile che immagini, una volta annientato il rivale, di diventare il nuovo “uomo forte” della Res publica restituta? Non è da escludersi, anche perché i suoi concorrenti “repubblicani” vantano sì un maggior prestigio sociale, ma sono politicamente e militarmente degli inetti – e lo stesso Gneo Pompeo è ridotto all’ombra di se stesso, e pare voglioso di ritirarsi. Una smodata ambizione, dunque, unita alla brama di confrontarsi con il maestro e superarlo: anche Cesare a suo tempo aveva dichiarato di preferire il primo posto in un villaggio di montanari al secondo a Roma.

Resta la difficoltà di intendere le ragioni psicologiche dell’acrimonia dimostrata dal generale piceno verso l’ex mentore, oggetto di invettive e di strali. Osservo che Tito Labieno non è l’unico cesariano a passare improvvisamente dall’amore (magari interessato) all’odio verso il leader: ben più turpe è però la condotta di “amici” come Decimo Bruto, Trebonio e Casca che, anziché sfidare Giulio Cesare sul campo, lo attirano in un tranello per pugnalarlo a tradimento. Nella feroce e competitiva società romana della tarda repubblica non c’è spazio per lealtà e gratitudine: si uccide frigido pacatoque animo, per calcolo o cinismo, eppure è palese che sia Labieno che i cesaricidi nutrono nei confronti del condottiero un sordo rancore, sedimentatosi evidentemente negli anni. Invidia a stento dissimulata verso un uomo oggettivamente ineguagliabile? Può darsi ci sia dell’altro. Forse la personalità di Cesare era per costoro indecifrabile, e ciò che non si comprende suscita paura; forse Tito e i suoi compagni d’avventura coglievano, dietro la maschera di impenetrabile cortesia sfoggiata dall’imperator, un sottofondo di distacco, sicurezza di sé e senso di superiorità che più o meno inconsciamente li umiliava. Giulio Cesare era ironico, cameratesco, sapeva affettare empatia, ma conoscendolo meglio ci si rendeva conto che egli osservava i suoi presunti “pari” da un’altezza siderale, e li vedeva non per come pretendevano di essere, ma per com’erano.

A Farsalo Tito Labieno assale alla testa della cavalleria pompeiana quella assai meno numerosa di Cesare, ma il geniale improvvisatore ha previsto ogni cosa e, con uno dei suoi stratagemmi, batte gli attaccanti e li costringe a un’affannosa ritirata. La rotta dei cavalieri causa quella dell’intero esercito repubblicano, che riporta una cocente disfatta. Il piceno non si dà per vinto: morto Pompeo organizza la resistenza in Africa, ma dopo qualche scaramuccia favorevole subisce una batosta a Tapso. I capifazione sopravvissuti vorrebbero fare di Utica una Azovstal ante litteram, ma l’onesto Catone lo impedisce, e allora il nostro si rifugia in Iberia per dare ancora una volta battaglia. A Munda Giulio Cesare rischia la vita (come già gli era capitato a Durazzo), ma alla fine è proprio un errore commesso da Labieno – un cambio di direzione che i militi pompeiani scambiano per un ripiegamento – a consegnare a Cesare una vittoria indiscussa, totale. L’armata repubblicana non esiste semplicemente più: cade anche Tito Labieno, e la sua testa spiccata dal busto viene portata al trionfatore, che la fa seppellire onorevolmente. Mi piace pensare che il gesto di Cesare sia stato stavolta sincero, e che il grand’uomo abbia provato un pizzico di compassione e finanche di rispetto nei riguardi del generale che l’aveva aiutato a conquistare le Gallie, ma che poi si era stoltamente illuso di poter competere – lui, comune mortale – con lo “spirito del mondo”.