Nerone diviene imperatore di Roma prima di compiere i diciott’anni: decisamente presto anche per un periodo storico in cui i giovani maturavano in fretta. A detenere l’effettivo potere è tuttavia un anomalo “triumvirato” composto da Seneca, il prefetto del pretorio Afranio Burro e – naturalmente – Agrippina, che si ingerisce negli affari di stato destando indignato sconcerto tra i senatori. Il giovane princeps è già sposato con Ottavia: un matrimonio poco felice ma politicamente utile, combinato ancora una volta dall’onnipresente madre. Smaniosa di controllare e dirigere la vita del figlio l’ambiziosa matrona tollera a stento che egli perda tempo a esercitarsi con la cetra, ma a infastidirla è soprattutto la relazione sentimentale iniziata dal giovane con una liberta di nome Atte. Nerone, abitualmente docile e remissivo, non vuol saperne di allontanare quella ragazza di umili origini: questo legame, nato forse in una serata di baldoria, si rivelerà il più profondo e duraturo della sua vita.
Il consigliere maggiormente ascoltato da Nerone è tuttavia Seneca, capace di guidare l’allievo senza urtarne la suscettibilità e chiudendo un occhio su quelle che l’alta società dell’epoca giudica “stranezze”: il primo quinquennio è all’insegna della tolleranza e del buongoverno, visto che il filosofo iberico (quando il suo interesse personale non interferisce con quello pubblico: si arricchirà infatti smodatamente!) dà prova di assennatezza e misura. Certo, fra lui e Agrippina emergono i primi screzi: la donna eccede in protagonismo, il principe può essere sotto tutela – ma non deve sembrarlo. Contrariata, la figlia di Germanico pensa di spaventare Nerone e il suo precettore giocando la carta Britannico, nato dal matrimonio fra Claudio e Messalina. Il rapporto di stretta parentela non dissuade l’imperatore dallo sbarazzarsi – con il veleno – del giovanissimo rivale; Agrippina, sospettando a ragione il coinvolgimento di Seneca, rompe con il figlio e si rimette a tramare. Stavolta però certat de damno vitando, poiché comprende di essere in pericolo di vita. Alla fine, dopo molti tentennamenti, Nerone opta per la sua soppressione: inscena un incidente nautico, ma la madre sopravvive – e allora è un omicidio in piena regola, piuttosto cruento, a svelare la realtà di una relazione che negli ultimi tempi si era fatta burrascosa. In nome della ragion di Stato Seneca ha ancora una volta approvato il gesto, di cui Nerone si assume la piena responsabilità: esibendosi poi più volte sulla scena nei panni di matricidi come Oreste sembra quasi rivendicarlo, anche se queste bizzarre sottolineature denotano piuttosto il bisogno di fare continua ammenda e riaffermare paradossalmente l’affetto per la genitrice. Anche Ottavia, accusata di adulterio e reputata ostile, farà una brutta fine; nel frattempo Nerone ha impalmato in seconde nozze Poppea, strappandola all’amico e sodale Otone.
Dicevamo che il princeps non si nasconde, al contrario: mette letteralmente in scena la sua vita, vestendo i panni di divinità popolarissime fra i romani. Impersona via via il dio Sole, Apollo ed Ercole – non perché sia “pazzo”, ma perché ha capito che il sovrano deve essere presente, “farsi vedere” senza peraltro svilire il proprio ruolo. Lo aiuta il suo aspetto vagamente esotico: i capelli biondo-rossi, le lentiggini e gli occhi celesti lo rendono immediatamente riconoscibile al “suo pubblico” (appesantendosi con gli anni finirà per assomigliare più a un sanguigno calciatore inglese che a un severo e imperturbabile magistrato romano). Nella sua biografia Edward Champlin ha evidenziato questo tratto di modernità dell’imperatore, che ne fa un po’ il modello cui tanti politici di oggi più o meno inconsciamente si ispirano. Un dio benevolo ma onnipotente, che si esibisce nel circo e sui palcoscenici. Sotto il suo regno ludi e festività si moltiplicano, per la gioia di un popolino avido di divertimenti. Nerone vara delle politiche che oggigiorno diremmo “di sinistra”: incrementa le distribuzioni gratuite e calmierate di grano, mette a disposizione dei cives parte dei suoi immensi giardini, prova addirittura (stoppato dai senatori) ad abolire le imposte indirette, cioè quelle che oggi come allora penalizzano i poveri, deprezza il valore della moneta d’oro – che i ricchi tendevano a tesaurizzare – a tutto vantaggio di quella d’argento, di più larga circolazione tra le masse. Lancia inoltre un vasto e visionario programma di opere pubbliche: avvia il taglio dell’istmo di Corinto e dopo il tragico incendio dell’Urbe un progetto di ricostruzione cittadina dal sapore vagamente ottocentesco. In luogo di insulae fatiscenti addossate l’una all’altra sorgeranno palazzi più accoglienti e ben costruiti affacciantisi su strade meno anguste delle precedenti. Champlin, soppesati tutti gli indizi disponibili, propende per una responsabilità diretta di Nerone nella causazione del catastrofico rogo, ma la maggioranza degli storici contemporanei tende a escluderla: fatto sta che tornato precipitosamente a Roma il principe coordina con efficacia i soccorsi alla popolazione e sarà poi prodigo di aiuti nei confronti di vittime e senzatetto.
Ad aver nociuto alla sua immagine postuma è la persecuzione scatenata contro i cristiani, senz’altro incolpevoli del misfatto: quali i motivi di questa scelta? Si trattava di un gruppo sociale in rapida crescita, che proprio per questo si attirava sospetti e antipatie: forse Nerone cercava semplicemente un capro espiatorio, probabilmente egli scorgeva nella predicazione di quella setta monoteista un possibile ostacolo al suo disegno di “divinizzazione” (laica se vogliamo) della figura imperiale. Fatto sta che la tragica fine di molti innocenti, crocifissi o sbranati nell’arena, sortisce l’effetto opposto a quello sperato: il popolo inizia a provare compassione per quegli infelici, e si diffonde la voce che l’inflessibilità imperiale sia frutto di cattiva coscienza. Non risulta forse che proprio su terreni percorsi dal fuoco lo stravagante sovrano sta edificando la sua immensa e sfarzosa Domus Aurea? In verità solo un folle avrebbe impartito un ordine del genere, e Nerone non lo era – come coniugare inoltre la schietta simpatia per i ceti popolari con una mossa tanto distruttiva e luttuosa? L’imperatore condanna e uccide quando lo ritiene assolutamente necessario in un’ottica di conservazione del potere (vale anche nel caso di Seneca), non per sadismo gratuito – anche i cristiani sono evidentemente percepiti come una minaccia.
Può stupire, in un personaggio demonizzato come Nerone, lo scarso interesse per l’arte militare e le conquiste: le guerre combattute – mai di persona – ebbero carattere difensivo, e quella contro i Parti si concluse con una grandiosa celebrazione tenutasi a Roma in cui il re armeno ricevette la corona dalle mani del princeps. Altro era il genere di competizioni di cui il monarca era appassionato: partecipò con successo alle Olimpiadi e ad altri giochi nella dilettissima penisola ellenica, al termine dei quali donò ai greci la piena autonomia.
In sostanza abbiamo a che fare con un uomo contraddittorio, ma creativo e tutt’altro che cupo: Nerone ci appare come un entusiasta, un innovatore dal carattere però fortemente instabile. Di fronte all’imprevisto si lasciava prendere dal panico (gli capitò nella fase finale della sua esistenza) e la sua passione per l’arte e le corse era piuttosto un’ossessione: il Peter Ustinov che strimpella svagato dinanzi alla corte non rassomiglia per niente a una persona che quasi implorava all’uditorio una conferma dei suoi faticosi progressi quotidiani. Applausi sinceri o piaggeria? Difficile appurarlo, anche se Nerone era indubbiamente colto e ricco di ingegno. Era anche ironico e autoironico: secondo Champlin la celebre frase Qualis artifex pereo! non è l’estrema vanteria di un personaggio fuori dalla realtà, bensì l’amara presa d’atto dell’incombere di un destino immeritato e beffardo – artifex significa anzitutto “artigiano” e al nostro toccò, prima del suicidio, scavarsi la fossa.
Sappiamo per certo che il quinto imperatore fu amato prima e dopo la morte: Atte e le nutrici gli furono accanto quando, abbandonato da tutti, pose fine alla sua vita; poi per molte primavere ed estati fiori freschi ornarono la sua tomba. In Grecia e in Oriente due o tre pseudo-Neroni dai capelli fulvi si misero a capo di masse popolari che non si erano rassegnate alla morte del principe che, per primo e ultimo, aveva portato l’immaginazione al potere.
(Fine seconda e ultima parte)