Se obtorto collo devo riconoscere un merito al maledettissimo coronavirus è quello di avermi indotto, nelle ore sottratte ai viaggi in auto e durante interminabili fini settimana da recluso, a ripescare dagli scaffali della libreria opere che, in condizioni normali, avrebbero forse continuato a impolverarsi per anni. Il Paradise Lost (in inglese, ergo doppiamente ostico!) acquistato a Lubiana è ancora rassegnatamente al suo posto, ma immergersi nella traduzione italiana del Pan Tadeusz di Mickiewicz e poi nelle ottave della Gerusalemme Liberata si è rivelato un’esperienza inconsueta, a tratti esaltante.
Il buon Tasso sonnecchiava in mansarda da oltre due decenni: all’epoca del servizio militare avevo acquistato una bella edizione della Liberata, memore della lettura di alcuni passi del critico Eugenio Donadoni, ma mi ero ben presto arreso ad endecasillabi con cui avevo poca dimestichezza e che gli scossoni dell’intercity Trieste-Lecce non rendevano di certo più abbordabili. Le reminiscenze scolastiche non erano poi granché incoraggianti: ricco di pathos il duello tra Tancredi e Argante, ma la centralità della scialba figura del “pio” Buglione e le frequenti comparsate di angeli e creature infernali lasciavano presagire strofe intrise di bigotteria. Tediosa propaganda fidei, insomma. Inutile dare la colpa ai sunti frettolosi contenuti nelle antologie: siamo noi lettori, una volta cresciuti, a doverci misurare con “classici” che – proprio perché tali – incutono soggezione.
La Gerusalemme è stata una scoperta, e le scoperte sono raramente agevoli: la lingua è aulica e desueta (per fortuna ci sono le note!), i rimandi – talora ai limiti del plagio, che però è concetto moderno – agli autori latini e medievali non si contano, e vanno intesi come altrettanti omaggi a una tradizione allora vivissima. A meravigliare sono tuttavia i contenuti: Torquato Tasso ci trascina in un’avventura dai ritmi incalzanti, ricchissima di colpi di scena, in cui domina l’elemento fantastico.
Non mi pare azzardato il paragone con J.R.R. Tolkien, vissuto tanti secoli dopo: il poema in venti canti è… fantasy rinascimentale, in cui tutto può accadere e tutto in effetti accade, persino i “miracoli” si tingono di magia. Tra gli episodi che restano impressi c’è il viaggio di Ubaldo e Carlo sulla navicella della Fortuna: dinanzi alla spiaggia di Gaza passano in mezzo ai legni egiziani che si radunano, par di vederli gli spruzzi e le vele gonfiate dal vento, ma lo scafo fatato scivola via talmente rapido che ben presto la flotta nemica, incapace a stargli dietro, scompare in lontananza. Le scene di massa sono grandiose, gli eroismi sovrumani, le passioni struggenti, i sortilegi sorprendenti: strano che di questi tempi nessuno abbia pensato di ricavare dalla storia un kolossal, visto che gli effetti speciali abbondano già sulla carta! Sarà che a Hollywood s’interessano poco di letteratura…
Alcuni passaggi possono forse annoiare o infastidire il lettore contemporaneo: l’esaltazione iperbolica della casata degli Este ci pare dettata da piaggeria, ma non bisogna dimenticare che Tasso era un poeta di corte, e sperticarsi in lodi del mecenate era per lui “compito istituzionale”. A ben pensarci il nostro poeta era assai meno ipocrita di tanti giornalisti e pennivendoli di oggi che, mentre protestano la propria indipendenza, fanno a gara per compiacere editori e sponsor vari, se non direttamente il “sistema” che li nutre.
Altri sono i contenuti della Gerusalemme che dovrebbero solleticare l’amor proprio delle femministe odierne: se l’Angelica ariostea è una preda indocile, che alla fine si fa beffe delle mene dei potenti e sceglie di testa sua, le eroine del Tasso assurgono addirittura a coprotagoniste dell’opera.
L’insidiosa Armida arreca ai cristiani maggior danno di una battaglia persa, capace com’è di sedurre e signoreggiare i più valorosi cavalieri nemici, mentre la guerriera Clorinda dà prova in svariate occasioni – da ultimo in quella del duello con l’inconsapevole e innamorato Tancredi – di una fermezza e di una forza d’animo che è vano ricercare nei personaggi maschili. Meno al passo con i nostri tempi, ed anzi pericolosamente “fuori moda”, è il modello tassiano di bellezza fisica: biondi sono non soltanto i capi della crociata, ma persino le principesse “pagane” che li fronteggiano o si struggono per essi – le già citate Armida e Clorinda, e pure la dolcissima Erminia (più aderente al cliché di donna sottomessa, fra l’altro).
In giorni in cui l’ipocrisia del politicamente corretto (più che la cattiva coscienza) annerisce i volti cinematografici dei protagonisti della Storia inventarsi chiome bionde e occhi chiari per la figlia del re d’Etiopia equivale di sicuro a una blasfemia, e se qualche insegnante semianalfabeta degli States si prendesse la briga di compulsare i versi della Liberata scatterebbe di sicuro l’ostracismo per il povero autore, accusato di suprematismo bianco e consimili inemendabili colpe. Si potrebbe chiosare che col passare dei secoli gli stereotipi si sono rovesciati, ma la realtà è un tantino più inquietante: a suggerire i colori era allora un retaggio culturale (assieme al gusto personale, comunque condizionato dal primo), oggi è un preciso calcolo politico.
Non meno intollerabile per la sensibilità dominante in questo inizio di millennio è la taccia di paganesimo rivolta ai musulmani: nella prospettiva culturale liberalcapitalista, che appiattisce secoli e millenni in una dimensione di eterno, immutabile e ideologizzato presente, ciò che viene attualmente considerato crimine o pregiudizio va condannato anche in coloro che vissero centinaia di anni orsono e furono educati al rispetto di valori che il lento lavorio dell’evoluzione storica ha pian piano sgretolato. L’uomo non è un ente astratto: ce l’ha insegnato Karl Marx, le cui discutibili (ma all’epoca, in un’ottica borghese, del tutto accettabili) scappatelle con la cameriera verrebbero criminalizzate senza appello da qualsiasi attivista MeToo.
Tornando all’opera cinquecentesca il parallelo con l’universo tolkieniano regge fino a un certo punto: nella Gerusalemme ci imbattiamo in ninfe, mostri e alberi parlanti, ma c’è pure qualcos’altro che cercheremmo invano ne Il Signore degli anelli – il rispetto per avversari degni di ammirazione. Orchi ed Uruk-hai sono dei bruti privi di sentimenti, individualità e onore: si battono con ferocia belluina, ma è soltanto il loro numero soverchiante a costituire una minaccia per Aragorn e gli altri eroi della saga; quanto a Sauron e Saruman, a muoverli è esclusivamente una cieca brama di dominio.
Gli antagonisti dei crociati sono al contrario tratteggiati dal Tasso con una cura che sconfina nell’aperta simpatia per quanti, pur meritevoli della vittoria, sono destinati dal Fato alla sconfitta: tra tutte queste figure giganteggia il turco Solimano, un “cattivo” che affascina – oltre che per lo straordinario valore in battaglia – per l’assennatezza, la complessità psicologica e la virile accettazione dell’avversa sorte.
(La seconda parte verrà pubblicata sabato 30 gennaio)