Gaio Cesare, terzogenito di Germanico, nasce a Roma nel 12 d.C. – dunque ancora sotto Augusto – e passa i primi anni di vita al seguito del padre, comandante delle truppe romane in Germania. Cresce negli accampamenti fra i soldati, che si affezionano al bimbo e lo soprannominano Caligula, che vuol dire “sandaletto” (militare). Germanico, nipote del nuovo imperatore Tiberio, è un comandante abile e carismatico, ma poco prudente: per questo suscita l’apprensione dell’esperto zio, che teme una nuova Teutoburgo.

E’ assolutamente improbabile che la morte in Pannonia del generale – verosimilmente per avvelenamento – sia da imputarsi al princeps, ma da quel momento le sorti della sua famiglia volgono al peggio: le accuse scagliate dall’ambiziosissima moglie Agrippina indispettiscono il futuro nesiarca, ma sarà l’avvento di Seiano a far precipitare le cose. La vedova di Germanico viene esiliata, i figli Nerone e Druso arrestati: su tutti incombe l’imputazione, fondata o meno che sia, di aver complottato contro il sovrano, la cui innata sospettosità viene alimentata ad arte dal diabolico prefetto del pretorio.

I lutti si susseguono: Gaio e le sorelle restano soli, a lui tocca trasferirsi nella “tana del lupo”, cioè a Capri da dove l’ormai anziano Tiberio governa l’Urbe con risentito pugno di ferro. Essendo oltremodo intelligente (Svetonio testimonia che apprendeva facilmente qualsiasi cosa, “non apprese però mai a nuotare” – LIV), il giovanissimo Gaio si garantì la sopravvivenza imparando a simulare devozione e a dissimulare i propri sentimenti. La situazione in cui si era venuto a trovare era a dir poco paradossale: era un candidato al trono e, al contempo, un ostaggio in quotidiano pericolo di morte.

Sebbene Tiberio non si facesse illusioni sulla sua tempra Caligola seppe tessere alleanze e rendersi gradito ai più: mentre il vecchio imperatore moriva solo e amareggiato in una villa di Miseno, rimettendosi al dito l’anello, il nipote veniva acclamato principe dalle truppe e poi, sulla strada per Roma, osannato da una folla che scorgeva in lui la reincarnazione del popolarissimo padre. I primi titoli con cui il popolo lo omaggiò furono “stella”, “pulcino” e “pupo” (Svetonio, XIII) – e questo ci porta a interrogarci sul suo aspetto fisico (aveva allora 25 anni) che Svetonio, sulla scorta di Seneca, descrive con raccapriccio: statura altissima, tempie e occhi infossati, gambe da pollo e collo lungo, peli ovunque fuorché in testa.

Una schifezza d’uomo, peccato che i ritratti dicano l’esatto contrario. Photoshop artigianale? Pare scarsamente plausibile, visto che la ritrattistica romana – perlomeno fino all’età del Dominato – si caratterizzava per l’estremo realismo e che nei busti del fulvo Nerone, pur descritto come piuttosto bello, scorgiamo un’imbarazzante pappagorgia. Anche le monete coniate regnante Gaio suggeriscono una sua somiglianza con l’affascinante madre: non ci resta che concludere che Gaio sia rimasto vittima, oltre che della damnatio, di una sorta di body shaming postumo.

Al di là della caricatura nella malevola raffigurazione svetoniana c’è però del vero: che fosse altissimo è indubbio (intorno al metro e novanta), la magrezza degli arti è pienamente compatibile con la statura “eccessiva”, al pari della stempiatura lo sguardo torvo e corrucciato lo ritroviamo pure nelle effigi. Régis F. Martin, nel libro “I dodici Cesari – dal mito alla realtà”, annota che Gaio non sbatteva le palpebre e che questa particolarità conferiva ai suoi occhi una fissità minacciosa. Caligola sapeva far paura, e se ne compiaceva. Nessuna fonte ci dice di che colore avesse i capelli, e questo basta a farci escludere che fossero mori o troppo chiari: castani, con ogni probabilità.

L’informatissimo ma superficiale Svetonio divide in due il breve principato di Gaio Cesare Germanico (dal 37 al 41 d.C.), intitolando la prima fase al princeps, la seconda al “mostro”: a fare da spartiacque una misteriosa infermità che al giovane costò quasi la vita. Ci viene suggerito che sia stato il morbo a imbruttirlo e incattivirlo, facendogli oltrepassare il confine che separa una relativa normalità dalla follia sanguinaria. La tesi, assai semplicistica, non convince per una varietà di ragioni. Tacito ammonisce che un potere illimitato inevitabilmente inebria e corrompe, mutando nel profondo (in peggio) chi lo detiene: lo storico si riferisce in particolare a Tiberio, che pure divenne imperatore in età avanzata e dopo aver ricoperto numerosi incarichi politici e militari.

A venticinque anni Caligola non aveva alcuna esperienza di governo, avendo trascorso infanzia e giovinezza lottando per sopravvivere: da una posizione precaria e debolissima passò, dall’oggi al domani, a quella di uomo più potente di Roma. Sono stravolgimenti di fortuna che farebbero girare la testa a chiunque. Al principio cercò di assecondare gli umori popolari e di non scontentare chi (Macrone e altri) gli aveva aperto la via per il trono, ma che da subito covasse progetti grandiosi è fuor di dubbio. Una delle turpitudini attribuitegli da Svetonio è quella di aver amato incestuosamente la sorella Drusilla, che chiamò immediatamente presso di sé e antepose a ogni altra donna.

Riflettiamo su un dato di fatto: durante la sua cattività Gaio aveva stretto amicizia con alcuni principi orientali suoi coetanei, tra cui Antipatro ed Erode Antipa. Ammiratore della cultura egiziana non ignorava che gli antichi sovrani di quella terra, oltre a essere adorati come dei, erano tenuti a sposare una sorella per ricostituire, agli occhi dei sudditi, la coppia celeste Osiride-Iside.

Decenni prima che Domiziano Flavio si fregiasse del titolo di Dominus et Deus (=Signore e Dio) fu Caligola a concepire la propria deificazione – e questo non perché fosse “pazzo”, semplicemente perché riteneva che Roma fosse ormai matura per una monarchia di stampo orientale.

(La seconda ed ultima parte verrà pubblicata sabato 24 aprile)