Sono in pochi oggi a domandarsi se Amenofi IV, cioè Akhenaton, sia stato un tipo balzano oppure il padre putativo del monoteismo, e il ricordo delle stramberie e della dissolutezza di Cambise figlio di Ciro è ormai sbiadito; quanto ai documentati eccessi di Alessandro essi gettano appena un’ombra fugace sulle sue imprese “impossibili”, che ne fanno un protagonista assoluto della Storia universale.
Il mito dell’imperatore-mostro, sconcertante impasto di crudeltà e follia, è senz’altro di matrice romana, e si è rivelato straordinariamente duraturo, almeno nell’immaginario occidentale: ancor oggi gli avversari del mondo sedicente libero e democratico vengono tacciati invariabilmente di ferocia e pazzia (quando si rivelano d’intralcio ai disegni egemonici statunitensi, si intende: i casi di Noriega e Saddam Hussein sono illuminanti in proposito).
Pare che ad adoperare per primo il poco lusinghiero appellativo riferendolo a un sovrano sia stato Svetonio, che nella Vita di Gaio Caligola scrive testualmente (XXII): “Fino a questo punto abbiamo parlato pressappoco di un principe; da adesso in poi dobbiamo parlare di un mostro”. Per “assurgere” a monstrum non sono sufficienti spietatezza e mancanza di scrupoli: è necessario un quid pluris, rappresentato da un misto di sfrenatezza (sessuale, ma non solo), autoesaltazione patologica e apparente insensatezza nell’agire. Folle è dunque Caligola, che si fa raffigurare nelle vesti di Giove Capitolino (e commette incesto con le sorelle alla moda egiziana, vorrebbe nominare console il suo cavallo ecc.); folle è Nerone che, vittima delle sue smanie artistiche, fa(rebbe) bruciare Roma per trarre ispirazione dal mare di fiamme, si paragona al dio sole e gareggia alle Olimpiadi. Per quanto giudicato riprovevole da una storiografia sfacciatamente ostile il comportamento di Tiberio suscita scalpore e “meraviglia” solo negli ultimi anni di governo, mentre Domiziano è descritto piuttosto come un sospettoso e cinico misantropo che come un pazzo propriamente detto, anche se osa fregiarsi del titolo blasfemo di Dominus et Deus.
A uniformarsi al modello di Caligola (e Nerone) è invece Lucio Elio Aurelio Commodo, la pecora nera degli Antonini: quasi un predestinato, visto che al pari di Gaio nasce il 31 agosto – a Lanuvio. Commodo non è sconosciuto al grande pubblico grazie alla magistrale interpretazione del “bel tenebroso” Joaquin Phoenix nel kolossal di Ridley Scott Il gladiatore. Gli affidabilissimi busti realizzati nel II secolo d.C. ci restituiscono tuttavia un’immagine del giovane imperatore ben diversa da quella consacrata dalla cinematografia hollywoodiana: il volto oblungo è incorniciato da una barba ben curata, i tratti appaiono distesi, gli occhi grandi hanno un’espressione serafica e tutt’altro che minacciosa. I capelli sono ricciuti e – a quanto si tramanda – tendenti al biondo, la figura slanciata: nel complesso un aspetto nobile e per nulla sinistro. Commodo è d’altra parte un giovane colto e raffinato: il padre Marco Aurelio – imperatore, ma anche filosofo e poeta – ha incaricato della sua educazione insegnanti di prim’ordine. Il vecchio princeps è un uomo di pace che sa fare all’occorrenza la guerra: intorno al 180 d.C. ha quasi sgominato Quadi e Marcomanni, che premono sulle frontiere nordorientali, quando sopraggiunge una pestilenza che inizia a sfoltire i ranghi del suo esercito. Marco Aurelio si ammala e muore (di peste, non di pugnale), lasciando l’impero in eredità al figlio superstite. Rompe così la tradizione inaugurata da Nerva di scegliere come successore “il migliore”, chiunque egli sia – ed è questo l’unico rimprovero rivoltogli dagli storici romani. Commodo sembra promettere bene, ma giunge troppo presto al supremo potere: “non si è mai troppo seri a diciassette anni”, ammonisce il Rimbaud di Romanza, e raggiunti i diciannove le cose non cambiano. Commodo fa la pace con i barbari a condizioni reputate svantaggiose, ergo (per i cronisti) è un codardo, oltre che un crapulone nostalgico delle mollezze di Roma. Può darsi, così come può darsi che un esercito decimato dall’epidemia e orfano del suo comandante in capo sia sull’orlo della rivolta: per quietarlo il giovane sovrano distribuisce lauti donativi e ordina il rientro in Italia – tutto il resto è finzione cinematografica.
Lo storiografo e senatore Dione Cassio – che sarà l’animatore dell’ultima congiura, quella andata a buon fine – ci racconta che Commodo non aveva un’indole malvagia, ma essendo suggestionabile e inesperto si lasciò traviare da cattive compagnie. In realtà il monarca è un uomo solo, esposto alle insidie: lo definiscono sospettoso, ma ne ha ben donde. La smodata passione per l’arte gladiatoria è generata o perlomeno rafforzata dai timori e dall’insicurezza: esibendosi nell’arena l’imperatore ostenta forza e destrezza per impressionare il popolo – che amando gli spettacoli lo sostiene – e soprattutto la classe senatoria, che egli a ragione considera infida. Sa farsi propaganda, insomma: non è per insania, ma per calcolo – io stimo – che scende in campo travestito da Ercole e affronta moltitudini di avversari (dalle armi spuntate: mica è un imbecille!). C’è del metodo in questa follia, ma Commodo è evidentemente incapace di conquistare l’affetto di chi gli sta accanto.
Dopo una dozzina di anni di un regno senza dubbio dispotico l’ultimo degli Antonini sarà assassinato dal suo allenatore, il liberto Narcisso, con la complicità della favorita Marcia oltre che di mezzo Senato: una fine che ricorda quella di Domiziano Flavio.
La pelle di leone indossata talvolta in pubblico non è una prova, come detto, della presunta pazzia di Commodo, né lo è l’intenzione da lui espressa (che non ebbe seguito: una smargiassata?) di ribattezzare Roma “Colonia Commodiana”: il termine giusto è megalomania, eccesso quasi giustificabile in chi, per un capriccio del fato, conquista il potere supremo in giovanissima età. L’etichetta di folle e di “mostro” affibbiata a lui e ad altri risponde perciò a esigenze assai concrete, di natura politica: non dobbiamo scordarci che l’imperator era un “intoccabile”, la sua soppressione violenta era quindi ammissibile solo in stato di estrema necessità. La bollatura con marchio d’infamia assolveva a posteriori i magistrati e senatori assassini o complici; inoltre rassicurava i sovrani “buoni”, la cui aura di intangibilità non era messa a repentaglio da precedenti riconducibili a situazioni eccezionali e “uniche”.
Guai al potente che, anziché fare gli interessi della propria classe sociale, si illude di plasmare il mondo a modo suo!